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Credit Suisse verso il baratro

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Dagli e ridagli si piega anche il ferro.

Non tentarmi, non sono una santa, diceva Rosanna Fratello in una canzone anni 60, improntata alla presunta severità dei costumi in vigore all’epoca.

Appunto, non tentarmi, perché il ferro prima o poi si piega.

Sembra quanto avvenuto a Credit Suisse, che, evidentemente, ha subito negli ultimi anni il fascino di parecchie tentazioni.

Dal giornale Le Monde del 27 ottobre 2021, a firma Veronique Chocron, leggiamo una opinione dell’autrice molto audace: Credit Suisse ha sostituito Deutsche Bank nella gara agli scandali finanziari più disgustosi del secolo.

Dello stesso parere il Neue Zuercher Zeitung, quotidiano zurighese, in genere molto abbottonato in questioni di finanza, che pubblicava sei giorni prima l’articolo che ispirava la Chocron.

Riuscire nell’impresa di sostituirsi al discutibile trono di Deutsche Bank, che sembrava inviolabile, non era facile. Ma sembra che Credit Suisse ci sia riuscita.

A cominciare dai Tuna Bonds: nel 2013, Credit Suisse presta a due aziende dello stato del Mozambico, con garanzia del medesimo, un miliardo di euro. La finalità del prestito è pescare tonni: cioè finanziare la flotta peschereccia del Mozambico.

Sembra però che a fare la fine dei tonni siano stati alcuni funzionari di Credit Suisse. Infatti, il miliardo di euro ha arricchito una lunga lista di corrotti dello stato del Mozambico e che pochi o forse nessun tonno sia stato pescato con quei denari.

Il prestito rappresentava il 6% del prodotto interno lordo del Mozambico. Questo, detto a beneficio di chi chiedendo un prestito in banca per comprare casa si sente rispondere di non avere reddito sufficiente. Insomma, volete mettere la differenza di immagine fra lo stato del Mozambico e un pirlone qualunque?

Nondimeno, Credit Suisse, forte dell’immagine conquistata con tale prestito, convertiva il prestito in obbligazioni, così da poterle rivendere sul mercato, facendo arrabbiare, in una volta sola, i regolatori di Gran Bretagna, Stati Uniti e Svizzera. Mica facile, o si fanno le cose in grande o non si fanno.

La Finma, la regolatrice svizzera, ha comminato una sanzione di 475 milioni di dollari a Credit Suisse, mentre l’accordo con le autorità britanniche ha previsto l’estinzione di un credito residuo di 200 milioni verso lo stato del Mozambico. La Finma, con l’occasione, emanava anche una raccomandazione di carattere generale a non esporsi con prestiti verso paesi a rischio di corruzione.

Nell’aprile del 2021, Credit Suisse ha comunicato di avere perso 4.7 miliardi di dollari con il fondo Archegos Capital.

La testata indipendente BondEvalue.com il 7 aprile del 2021 ci rendeva noto che la banca ha licenziato “almeno” sette dirigenti senior, trader e gestori del rischio. Un po’ tardi, forse, ma meglio tardi che mai, si dice.

La cosa interessante che era emersa è che ci sono sempre figli e figliastri in finanza.

Il giorno prima della debacle, Morgan Stanley ha venduto 5 miliardi di dollari di azioni di proprietà di Archegos con uno sconto a forfait (divertente, vero, se non fosse drammatico?). Ma, a dimostrare la cessione del proprio trono a Credit Suisse, anche Deutsche Bank “ha evitato l’impatto” con una vendita di 4 miliardi di dollari “con un accordo privato”.

Invece, Nomura, che non si trovava nell’olimpo dei figli, ma dei figliastri, ha subito un colpo da 2 miliardi di dollari. L’olimpo ha sempre posti limitati.

Sembra però che Credit Suisse abbia avuto il colpo più grosso con Greensill Capital.

E’ il Financial Times che nell’aprile del 2022 cerca di ricostruire l’intero flusso dell’affare Greensill.

Così complesso da raccontare per esteso, visto che coinvolge, lobbysmo, pressioni politiche, avidità finanziaria senza scrupoli, il tutto in un mix che vede la banca restituire agli investitori 6,9 miliardi di dollari su 10, avvisandoli che forse potranno recuperare ulteriormente qualcosa nei prossimi cinque anni a conclusione di una serie di cause legali infinite dal dubbio esito che Credit Suisse ha intentato in mezzo mondo.

Così, oggi, i Credit Default Swap di Credit Suisse sono sul livello del 2008: questo significa un rischio molto alto di default.

Come sempre, prevarrà ancora una volta, “nel pubblico interesse” ovviamente, che i profitti, quando ci sono restano privati, mentre le perdite dei big diventano pubbliche. Perché non si vuole limitare a far diventare qualcuno “too big”, solo che quando diventano “too big” automaticamente sono eletti “too big to fail”.

Così, verrà trovata una soluzione, con una fusione, o in qualche altro modo che serva a sotterrare sotto mezzo metro di prato quello che propriamente prato non è.

Perché dagli e ridagli si piega anche il ferro. Sembra ferro, era latta e di scarsa qualità.

 

 

 

 

 

 
 
Maurizio Monti – editore di Traders’ Magazine Italia
 

P.S.: E’ molto probabile che tu conoscessi già una parte o tutta la vicenda Credit Suisse. Nondimeno, converrai con me che la stampa di lingua italiana ha dato poco risalto a quello che potrebbe diventare un botto di dimensioni tutt’altro che trascurabili.

Non solo, avrai trovato, negli ultimi due anni, una tonnellata di articoli, anche di blasonatissimi personaggi, che ti suggerivano o citavano o spingevano i certificati di Credit Suisse o qualche prodotto finanziario vestito con la loro fantastica immagine.

Nel mondo di lingua italiana c’è una codardìa straordinaria nei confronti dei cosiddetti poteri forti, che alimentano con il denaro un flusso di pubblicità e marketing dei loro prodotti finanziari. Così, cane non mangia cane, e non si parla male di chi mi dà la pubblicità.

Tienine conto.

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