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I carrarmati stritolano per sempre i mercati emergenti

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Alcune settimane fa, su queste colonne, da grande ingenuo che sono, analizzai il gap di distanza fra le azioni della borsa di Mosca con le altre borse occidentali. E conclusi che sarebbe presto arrivato il momento per pensare ad investire sul mercato russo.

Ammettere di avere detto una castroneria è tipico delle persone oneste e credo di esserlo. Quel momento non è evidentemente arrivato e non arriverà mai più.

Putin ha ucciso il mercato azionario russo. Ma ha fatto di più. Ha creato una crisi di permanente sfiducia nei confronti di molti, forse di tutti i mercati cosiddetti emergenti.

La grande illusione capitalista, nata dopo la caduta dell’Unione Sovietica, che il mondo si sarebbe unificato tutto sotto l’egida capitalista, e che prima o poi tutte le nazioni avrebbero avuto una convergenza di fatto verso il sistema statunitense o occidentale, è stata distrutta in poche ore dai cingolati russi entrati in Ucraina.

Non solo non è avvenuto, ma a questo punto difficilmente avverrà. E’ probabilmente l’inizio della fine degli investimenti nei mercati emergenti.

A dire il vero, non è che detti mercati abbiano brillato mai più di tanto.

Basta prendere a riferimento qualche ETF strategico o qualche fondo azionario e confrontarli con quelli delle borse occidentali per accorgersi che, salvo mirate eccezioni, non c’è mai stato da farsi venire un grande appetito in tali investimenti.

La situazione attuale è che dopo le sanzioni imposte alla Russia, in seguito alla invasione dell’Ucraina, la banca centrale russa ha sospeso la negoziazione di azioni. E il governo ha impedito agli investitori stranieri di vendere qualsiasi altro asset russo.

MSCI, fornitore di indici rappresentativi delle borse mondiali, ha annunciato che la Russia viene esclusa dal suo principale indice dei mercati emergenti. Ormai c’è poco da far emergere.

Il mercato russo non è più investibile.

Tornando indietro nel tempo, e avendo vissuto quegli anni posso raccontarli, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, a partire dal 1992 partì in Russia un programma di privatizzazioni: furono creati dei titoli che davano ai russi la possibilità di partecipare in società ex sovietiche.

L’origine delle grandi ricchezze degli oligarchi si deve a quell’epoca.

Essi fecero incetta di quei titoli a pochi centesimi di rublo. Poi li usarono per costruire le loro fortune con partecipazioni nelle grandi compagnie petrolifere e di materie prime, come Gazprom, Lukoil e Rosneft.

Per circa due anni, fra il 1996 e fino all’agosto del 1998, la Russia era diventata il mercato emergente con le migliori performance.

Poi nell’estate del 1998 tutto crollò: e il crollo fu spettacolare almeno quanto la sua ascesa. Rapidamente diventò il mercato più odiato del mondo. Perfino George Soros, non proprio l’ultimo degli sciocchi, perse due miliardi di dollari in Russia.

Ricordo, in quel tempo, di avere letto una intervista ad un gestore di fondi dell’epoca che aveva dichiarato: “Preferirei mangiare scorie nucleari piuttosto che investire in Russia”.

Il crollo del 1998, creò una formidabile onda d’urto.

Quasi una nostalgia del vecchio fossile ma immobile sovietismo. Tale nostalgia fu cavalcata, guarda un po’, nientemeno che da un funzionario del KGB di nome Vladimir Putin che prese il controllo della Russia come primo ministro.

Putin si affrettò a definire la caduta dell’Unione Sovietica come “la più grande catastrofe geopolitica del secolo”. Dipende dai punti di vista, ovviamente.

Alla luce di quanto avvenuto dopo, e di quanto tutto il mondo ha sottovalutato il pericolo, Putin ha trascorso la sua esistenza, da quel tempo, desiderando vendicare quella grande catastrofe. Vista sotto questo aspetto, l’invasione dell’Ucraina è la prima puntata di una visione politica delirante molto più vasta, quanto pericolosa per il mondo intero.

Del citato indice MSCI paesi emergenti, la Russia rappresentava meno del 4%. E l’economia russa rappresenta (o meglio rappresentava perché ora difficile fare qualunque valutazione) qualcosa meno dell’economia del Texas. Questi sono i grandi risultati economici dei regimi dittatoriali.

Se esaminiamo nel complesso gli altri principali paesi emergenti, i BRIC, con Brasile, India e Cina, piuttosto che altri come Sud Africa e Turchia, l’investimento in tali paesi è stato finora mediamente molto sotto-performante rispetto ad investimenti nelle borse azionarie occidentali.

Sono stati investimenti che attendevano un futuro radioso che non è mai arrivato e sul quale, ora, Putin ha messo una bella pietra sopra di sfiducia strutturale.

La stessa declamata Cina, con tutta la sua potenza, negli ultimi 15 anni ha sistematicamente deluso gli investimenti stranieri. Dai un’occhiata all’ETF che rappresenta le Large-cap cinesi, il suo simbolo è FXI, e ti accorgi che oggi viene scambiato ai prezzi del 2006.

I mercati emergenti sono legati, ciascuno, alla storia del proprio paese. Nessuno di loro è diventato il “paese del futuro”. E temo che quanto avvenuto negli ultimi 15 giorni sia una archiviazione progressiva, per lungo tempo, delle prospettive di sviluppo di tali paesi, dal punto di vista degli investitori.

Giappone e Germania, modello di paesi usciti da enormi difficoltà dopo una guerra distruttiva, non sembrano essere esempi facilmente replicabili.

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