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Il gigantesco falò dei titoli deprezzati

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Attori di un film già visto. Ora ne sappiamo una in più e anche importante.
 
Nei mesi scorsi, avevamo messo l’accento sul fatto che l’epoca che stiamo vivendo ha qualche attinenza, e forse numerose attinenze, con altre epoche storiche precedenti.
 
Ma sicuramente ha un elemento nuovo che non c’è mai stato: l’uscita da una condizione di mostruosa iniezione di liquidità durata per 13 anni.
 
Questa era la differenza che noi percepivamo, chiedendoci: che cosa accade di diverso, a causa di questo?
 

Ora abbiamo scoperto che cosa c’è di diverso: una parte di quella mostruosa liquidità è stata investita in titoli di stato americani, che le banche, americane e non solo, hanno in pancia.
 
L’asset considerato sicuro per eccellenza, in quanto emesso da uno stato giudicato certamente solvibile in una valuta di riferimento mondiale: che cosa può esserci di più sicuro?
 
Il problema è che, pur essendone certa o quasi la solvibilità, trattasi di titoli obbligazionari, il cui prezzo è sottoposto alle condizioni di mercato e dei tassi di interesse.
 
Quindi, come tutte le obbligazioni, se le ho comprate in regime di tassi
molto contenuti, a zero o quasi, se quei tassi aumentano il prezzo dei titoli diminuisce… e se devo venderli per necessità accumulo e contabilizzo perdite.
 
Perdite che non erano visibili in bilancio, perché quei titoli erano valorizzati in bilancio a valore di carico.
 
Siccome nessuna banca è sufficientemente liquida per poter rimborsare tutti i depositanti in una volta, se c’è una corsa al ritiro dei depositi, quando la liquidità finisce, è necessario vendere al meglio quei titoli. E più è necessario vendere, più si accumulano perdite.
 
La banca che incorre in tale disavventura, come la Silicon Valley Bank, è costretta a tentare aumenti di capitale in emergenza, che non vengono sottoscritti, proprio perché la banca ha accumulato perdite e sta perdendo tutta la liquidità dei depositi.
 
Così, clienti, mercato e azionisti hanno condannato la banca al fallimento.
 
Si chiama Bank Run. Il fenomeno con cui correntisti o risparmiatori scappano da una banca, o anche da un asset più o meno fantasioso (oggi ce ne sono tanti che giocano a fare le banche), per spostare i soldi altrove.
 
E’ un fenomeno aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni. Più lo scetticismo complottista dilaga, più il Bank Run aumenta: se viene meno la fiducia, o non c’è fiducia di fondo, è il panico, spesso da irrazionalità, a scatenare la fuga in modo incontrollato.
 
Le conseguenze sui mercati le abbiamo viste negli ultimi due giorni della scorsa settimana, e probabilmente le vedremo ancora nelle prossime ore.
 
Noi non riteniamo che si tratti di una crisi di lunga durata, ma può dare origine ad affondi temporanei anche dolorosi. Rimaniamo, per ora su un affondo del future di giugno dell’S&P500 a 3850, poi a 3810 e 3788.
 
La rottura di 3788 può perfino significare 3650, ma lo riteniamo molto, molto difficile. Mentre, ora, 3810-3788 potrebbero essere raggiunti con una probabilità maggiore di cinque giorni fa. Tutti i valori, ripeto per evitare fraintendimenti, sono riferiti al future di giugno.
 
La nostra opinione, e prego prenderla come tale, è: malgrado tutto, vediamo un rischio concreto, ma la catastrofe non è ora. E questa crisi non durerà a lungo.
 
E’ una prova generale di una crisi che si manifesterà più avanti, in maggio o giugno, dove la causa prima potrebbe essere il litigio ad oltranza delle opposte parti politiche del Congresso americano nell’ampliamento del tetto del debito americano. O anche qualcos’altro, la realtà supera sempre ogni possibile fantasia.
 
E’ l’economia di carta che si appoggia su un mercato di derivati divenuto spaventosamente ampio e di brevissimo termine: è un bel mix esplosivo a cui qualcuno dovrà trovare una soluzione.

 

 

 

 

 
 

 

Maurizio Monti
Editore Traders’ Magazine Italia

P.S.: Ora ci sarà qualcuno che dirà che la crisi era prevedibile, stante la grande quantità di liquidità investita in titoli obbligazionari.
 
Chissà perché in finanza a cose fatte è sempre tutto prevedibile. Ma abbiamo avuto bisogno del fallimento della Silicon Valley Bank per accorgercene. E anche, realizzare che molte banche sono messe allo stesso modo, anzi c’è un intero sistema bancario che si regge in quel modo.
 
C’è stato anche l’immancabile guru, “short da tempo” sul titolo SVB. Mai la gioia di dircelo prima.
 
Il problema è che, normalmente, ci vogliono due elementi concomitanti per provocare un effetto sui mercati: in questo caso, il ritiro della liquidità da parte dei depositanti e le perdite sui titoli. Il primo elemento attiva il problema, il secondo lo fa esplodere. E nessuno si accorge del secondo finché non c’è il primo.
 
Nel frattempo la Yellen ha fatto sapere che la SVB non verrà salvata, che ci sarà attenzione per i depositanti, e che la soluzione migliore è un possibile acquirente… che si prenda il buco, magari in cambio di qualcosa. E che verrà fatto tutto il possibile per evitare il contagio.
 
Come sempre, poi, emergono tanti aneddoti: il responsabile dell’amministrazione di SVB era CFO di Lehman Brothers fino al 2007. E il CEO di SVB era membro del board della FED di San Francisco, ora dimissionario. Persone e aziende che vanno e vengono e la ruota gira.

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