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Questo capitalismo implodera

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Riflessioni di una sera al ristorante a Milano, durante il Salone del Risparmio.

Il Salone del Risparmio, con i suoi 15.000 visitatori, è stata una grande e bella festa dedicata a tutti gli investitori, agli operatori e ai professionisti della finanza.

Un’occasione unica di incontro di INVESTORS’, dei suoi Autori e del suo staff con il Grande Pubblico che apprezza il nostro sforzo di renderla sempre più la rivista di riferimento della Cultura più evoluta dell’investment in Italia. E quell’apprezzamento ci incoraggia costantemente a fare meglio. 

Ma, premesso il ringraziamento doveroso al nostro Pubblico, vorrei raccontarVi, dei giorni del Salone, una mia esperienza vissuta, che poco ha a che fare con la manifestazione, ma che mi permette di fare non poche considerazioni sull’epoca che stiamo vivendo.

Chi mi conosce sa che apprezzo moltissimo passare le serate al ristorante: mi piace scoprire la sensazione dell’ospitalità, il cibo, le usanze, la creatività degli chef, gli ambienti. In alcune mie conferenze, alcuni mi avranno sentito declamare il menù della sera precedente, come introduzione: ebbene sì, sono un golosone e il mio desiderio di comunicazione si esprime, la sera, in queste peregrinazioni gastronomiche.

Sapevo che le giornate del Salone sarebbero state molto impegnative: incontrare i Lettori delle nostre pubblicazioni è un piacere troppo grande perché possa perdermelo e, salvo gli impegni professionali concomitanti, adoro stare allo stand per dare manforte a tutti i miei collaboratori. La mia casa è a circa due ore di strada da Milano e avevo già prenotato l’hotel per i tre giorni.
Era il tardo pomeriggio del primo giorno di fiera, quando cominciai a pormi il problema di dove mangiare. In una occasione precedente, mi ero imbattuto nell’insegna di un ristorante molto noto, collocato in una zona caratteristica di Milano: ero entrato, avevo preso il bigliettino del ristorante e avevo memorizzato il numero. Ci sarei andato prima o poi, e, pensai, il momento era arrivato.

Chiamai. Una voce gentile, a fronte della mia richiesta di prenotazione, per la sera stessa, me la rifiutava, essendo i posti già tutti prenotati. Rilanciai. Sono a Milano tre giorni, non avrebbe posto per domani. No, signore, anche domani è tutto prenotato. E dopodomani ? La voce gentile mi comunica che sono rimasti liberi, ancora, dei posti particolari, siti davanti al banco del pesce.

Sto per rinunciare: ho netta la sensazione di una soluzione rimediata, scomoda, dove invece che rilassarmi mi sarei innervosito. Ma la voce gentile riesce a vendermi quel posto come assolutamente esclusivo e, in qualche modo, mi convince. Aggiunge anche, ad abundantiam, che avrebbe tenuto libero il posto vicino al mio, in modo da poter avere più spazio. Mi incuriosisco, ma taccio.

La prima e la seconda sera, ad onore della ristorazione milanese, ho mangiato e sono stato ospitato divinamente, nei ristoranti che poi ho prenotato.
Ora Vi racconto quella terza sera con il posto speciale al banco del pesce.

Effettivamente, si trattava proprio di un posto al banco del pesce. Letteralmente. Il banco del pesce del ristorante, dalla parte frontale, ha un ripiano lungo, che può ospitare, in qualche modo, quattro persone. La larghezza del ripiano è disagevole, penso circa 40 centimetri scarsi, forse 35. Una piccola tovaglietta, il piatto, le posate, i bicchieri (e quelli dove li metteranno? Sforzo di fantasia, nell’angolino a sinistra …). Infine, la sedia, che ho realizzato dopo essere scomoda ed inadeguata, con una imbottitura troppo dura, e i poggiabraccia in ferro battuto, tanto caratteristici quanto inopportuni. 

Alla mia destra, nessuno, come promesso. Anche perché ci saremmo arrabbiati in due, tanto saremmo stati vicini. Nei due posti ulteriori, una coppia, che per parlare un po’, come fanno le coppie, aveva assunto una posizione con le sedie leggermente in diagonale, in modo da non stare fianco a fianco. Ero scomodo io, mi figuravo loro … ma non sembravano particolarmente scontenti, una coppia è una coppia, dovunque si sta …

Ho accettato scientemente quel posto, ma dopo un quarto d’ora ero assolutamente scontento di averlo fatto. Il banco del pesce dava peraltro, all’inizio, una bella immagine di sé, con l’evidenza di astici ed aragoste, fra molte altre bontà ittiche. Dietro il banco gli chef a preparare le loro creazioni.
Vengo aiutato e servito impeccabilmente nella scelta del menù e del vino. Prendo un antipasto e un secondo. Sicuramente di grande qualità entrambi.

Quello che credo fosse il caposala, si incaricava di chiedermi in continuazione se tutto andasse bene. Confesso che mi era subentrato un rilevante senso di disagio. Stare al banco del pesce, e guardare il pesce, pronto per essere cucinato era una immagine che finiva per stancare l’occhio, almeno quanto deprimeva il senso di autoironia, che quando si è soli è più che mai assolutamente necessario. La posizione veniva osservata da tutta la sala, ma non permetteva di osservare la sala. Alle spalle una grande continua agitazione di personale addetto al servizio in corsa permanente. Ne percepivo lo spostamento d’aria, con fastidio. 

Ma la serata, in sé, sarebbe stata archiviata come una scelta inadeguata a me. Forse senza alcuna considerazione aggiuntiva. 
Ma il bello è venuto in fondo. Scompare l’esercito di personale di servizio impeccabile e un giovane, visibilmente affannato, mi chiede come volessi proseguire. Volevo proseguire con un dolce, che scelsi ma che nessuno mi portava. Con una certa difficoltà, vista la posizione, cercai di attirare l’attenzione di uno dei tanti corridori che lasciavano la scia di vento dietro le mie spalle. Ma avevo difficoltà a riuscire a fermare qualcuno, ci sarebbe voluta la paletta dei carabinieri per farlo.

Dopo un quarto d’ora, qualcuno si accorge di me, prima che emettessi un urlo. Il dolce ? lo ha già chiesto ? incredulo, come era venuto, corse via.  Me lo portò un altro, dopo circa venti minuti,  ma l’affanno a quel punto era diventato evidente e diffuso. Le sale si erano riempite, effettivamente c’era un trionfale tutto esaurito. Finito il dolce, chiedo il caffè. Ma anche quello diventa difficile ottenerlo e devo chiederlo tre volte. La sedia è scomoda, sono stanco di vedere l’occhio vitreo di una coda di rospo che mi guarda con la bocca aperta. Basta. Chiedo il conto, evidentemente seccato.

Tutto bene signore ? Eccome, no ? faccio io con l’aria alla Alberto Sordi. Pago il conto, in linea con quanto scritto nel menù. Rispetto al nervoso accumulato, mi sono sembrati soldi buttati via e anche troppi, per di più.

Mi è difficile spiegare il senso di disagio che ho provato. In realtà, quel ristorante, con il suo metodo rigorosamente industriale, con il suo essere una catena di montaggio della ristorazione, dove ogni spazio, anche il banco del pesce, è venduto come presunta originalità, è perfettamente coerente con l’epoca che stiamo vivendo. Il metodo in questione, freddo, asettico, volto al fatturato, al margine di contribuzione, al calcolo del personale di servizio rispetto all’occupazione media, con grossolana sottovalutazione dell’effetto dei picchi, è assolutamente in linea con ciò che rappresenta la nostra era e con la drammatica sostituzione e manipolazione di valori, votata al marketing del profitto, invece che al rispetto superiore del Cliente e della qualità.

Capisco anche l’imprenditore di quell’attività, costretto da un sistema tutto tasse e burocrazia, a dover quadrare i propri conti di una impresa di quel genere. Capisco tutto. Ciò che non comprendo più è quanto questo abbia senso: quanto il deterioramento della qualità di tutto, del servizio, del lavoro, il maquillage del marketing che copre il nulla, possa durare a lungo nel nostro sistema, senza che questo, prima o poi, imploda di suo. Perché queste considerazioni, tristissime, di un Cliente di ristorante, come me, applicate su larga scala portano alla altrettanto triste conclusione che il trionfo del marketing dell’era della crisi e post(?)-crisi finanziaria contemporanea porta alla demolizione dei valori del capitalismo: che è, giova ricordarlo, distribuire benessere, aumentare la qualità vera dei prodotti e servizi e non solo quella patinata del marketing, allargare l’area sociale della salute finanziaria ed economica, esaltare la qualità intrinseca ed estrinseca del lavoro.

L’era contemporanea, con la rottamazione della classe media, ha ristretto l’area del benessere, giugulando la concorrenza vera e portando la competizione su un piano che non incrementa più la qualità in quanto tale, ma il suo voler apparire, lasciando aperta la strada ai dilettanti allo sbaraglio, purchè maghi del marketing di prodotto. Perché l’importante è il fatturato e il margine di contribuzione, ancor di più in un contesto di evidente ed incontrollata vessazione fiscale e contributiva e di oppressione burocratica. La qualità? basta quella percepita. Per quella vera, attendiamo l’implosione del capitalismo attuale e la rinascita che ne seguirà. Perché in una cosa non finirò mai di credere: il capitalismo è in grado di rigenerarsi, e lo farà. Speriamo che l’implosione da cui deve passare sia, per noi, la meno dolorosa possibile.

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Maurizio Monti

Editore TRADERS’ Magazine Italia

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